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Flow, non solo animazione

Franco Piccinini ci porta alla scoperta di alcune divulgazioni letterarie partendo da Flow, film di animazione al computer del regista Gints Zilbalodis.

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Questa volta le mie divagazioni letterarie partiranno da un film di animazione, per poi arrivare a parlare di libri. Non è un film destinato specificamente ai bambini, anche se può essere visto da tutta la famiglia, perché le sue sfumature possono essere meglio apprezzate da un adulto. Non è un caso del tutto infrequente: mi vengono subito in mente almeno due opere. La prima è Quando soffia il vento (When the Wind Blows) film d’animazione del 1986 diretto da Jimmy T. Murakami, che racconta di una famiglia colpita dal fallout d’una guerra nucleare; la seconda è Il ragazzo e l’airone (The boy and the heron) del maestro Hayao Myazaki, ispirato da alcuni versi di Dante, che porta il protagonista adolescente in un mondo fantastico dai risvolti malinconici, dove i vivi possono incontrare i morti e dove il ragazzo spera di ritrovare sua madre scomparsa nel 1944 sotto i bombardamenti. Questo anime è stato premiato con il Golden Globe e l’Oscar nel 2024.

La stessa sorte è toccata nel 2025 a Flow, un film di animazione al computer di un regista lettone, sconosciuto ai più: Gints Zilbalodis. A scoprirlo per primo è stato il festival di Cannes, nella sezione Un certain regard, ma è stato presentato con grande successo anche alla Festa del Cinema di Roma. Insomma Golden Globe e Oscar non sono giunti inattesi e di certo sono ampiamente meritati. È stato messo a paragone con un altro titolo animato uscito recentemente, ossia Il Robot selvaggio (The wild robot) prodotto dalla Dreamworks di Spielberg e battuto in finale agli Oscar). In entrambe le pellicole l’uomo non è presente e, soprattutto, in tutte e due c’è un discorso sull’importanza dell’unione come soluzione per affrontare le difficoltà, quando si cerca di sopravvivere. Si tratta d’un gioiello a basso costo, realizzato con software open source e un motore grafico simile ad Unreal Engine, abitualmente utilizzato dai realizzatori di video giochi. Invece di crearlo imitando lo stile più abusato, quello di Disney Pixar o di Dreamworks, il regista ha utilizzato in modo positivo le proprie limitazioni di budget per ottenere una grafica e delle immagini dalle sfumature poetiche. Sulla rivista Wired, il commentatore ha osservato che fare animazione computerizzata è costoso in termini di strumenti da usare. I grandi studi come la Pixar hanno una sezione sviluppo che programma software appositamente per le loro esigenze, gli studi più piccoli poi ne comprano le licenze. Flow invece è stato fatto con Blender, un software open source disponibile a tutti. C’è un sacrificio in termini di dettaglio e raffinatezza visiva, ma l’esito diverso è quasi pittorico. Il risultato è uno scenario fatto di dipinti e acquerelli, che danno un’atmosfera fiabesca pur mantenendo un realismo che rende tutto più credibile. Gli animali protagonisti sono stilizzati nel disegno, ma sono totalmente realistici nei movimenti: non sono gli animali di Walt Disney, non sono antropomorfi, non parlano, non stanno su due zampe, sono animali che sembrano animali e si comportano istintivamente come fanno gli animali.

La storia è ambientata in un mondo in cui gli esseri umani sembrano essere scomparsi: il pianeta Terra è popolato solo da animali, la natura ha preso il sopravvento su tutto, sono sorte nuove montagne e il livello dei mari si sta alzando. La vicenda parte da un gattino nero che si sta facendo i fatti suoi in un bosco, vicino alla casa del suo padrone ormai scomparso: un artista che amava scolpire e dipingere i felini, suoi animali preferiti. Improvvisamente arriva un’onda anomala, preceduta da un fortissimo vento, che travolge tutto e tutti. Il gatto, abituato a vivere per conto suo, si vede improvvisamente costretto a mettere da parte la sua indipendenza per sopravvivere. L’inondazione lo costringe infatti a mettersi in salvo su una barca abbandonata, che deve però condividere con un variopinto gruppo di animali, tra cui un lemure dalla coda ad anelli, un cane labrador, un capibara e un uccello bianco dalle lunghe zampe che sembra un serpentario. Sono esseri che vengono da tutte le parti del globo e che in natura non potrebbero incontrarsi (il lemure è originario del Madagascar, mentre il capibara vive lungo il Rio delle Amazzoni): forse sono sfuggiti a qualche zoo travolto dalla catastrofe. Gli animali devono imparare a collaborare per sopravvivere, trovare qualcosa da mangiare, non morire annegati e in qualche modo spostarsi alla ricerca di un luogo più sicuro. Per il gatto, animale solitario e indipendente, è una sfida estremamente difficile. Ma tra paesaggi di abbagliante bellezza (montagne altissime, città in rovina, templi buddisti come quelli del Tibet o della Cambogia), il viaggio si trasforma in una Odissea densa di pericoli e imprevisti, che farà capire a tutti che l’unione è la loro vera forza.

Non è facile rintracciare in letteratura storie in cui gli animali sono gli unici protagonisti, ma qualcosa c’è. Non mi riferisco agli animali parlanti della tradizione favolistica, che va da Esopo e Fedro fino al nostro Pinocchio (è da lì che Disney e soci hanno preso lo spunto per i loro animali antropomorfi – non a caso i primi cartoons del pioniere Paul Terry si chiamavano Aesop’s Fables). Anche nei casi più famosi, come I Libri della Giungla di Kipling, Tarzan delle Scimmie di Burroughs o i romanzi di Jack London Zanna Bianca e Il richiamo della foresta, si descrivono sempre animali che interagiscono con gli umani, sebbene il punto di vista sia capovolto. Per trovare un romanzo dove gli animali agiscono da soli bisogna risalire a James Oliver Curwood e a una delle sue opere più note: I nomadi del Grande Nord (Nomads of the North, 1919). È la storia di un giovane orso e di un cucciolo di cane, rimasti entrambi orfani, che stringono amicizia e collaborano per sopravvivere nel clima gelido delle foreste dell’Alaska. La vicenda ha più di un punto di contatto con Flow, sebbene sia separata da più di cent’anni.

L’ipotesi che un giorno l’umanità possa scomparire e lasciare posto a dei discendenti, provenienti da qualche altro ramo del regno animale, è ovviamente stata sfruttata da molti scrittori di fantascienza, ma ha solide basi scientifiche. Nel campo della divulgazione, suggerisco la lettura di due testi molto validi e importanti.

Anzitutto c’è Il mondo senza di noi (The world without us, 2007) del giornalista scientifico americano Alan Weisman. Ricorrendo a numerosi esempi presi dalla storia e dalla cronaca, viaggiando attraverso le parti del mondo già de-umanizzate e avvalendosi della consulenza di esperti, Weisman ci spiega che cosa potrebbe succedere sul nostro pianeta dopo la scomparsa della nostra specie: dopo 48 ore, dopo 5 giorni, dopo 100 anni e dopo 500 milioni di anni. Se un’epidemia o una catastrofe naturale eliminassero per sempre gli esseri umani, che cosa accadrebbe alle materie plastiche, ai mattoni, al cemento armato, alle strutture in ferro, alle città, ai monumenti? Quanto durerebbero? E quanto impiegherebbe la natura a riprendere il sopravvento? Il successo dell’opera è stato tale da spingere National Geographic a produrre una miniserie televisiva, La Terra dopo l’uomo, che descrive la stessa situazione con abbondante uso di effetti speciali molto convincenti, realizzati in grafica CGI (proprio come per Flow).

L’altro libro è After man, una zoologia del futuro (After man, 1981) dello scienziato, zoologo e divulgatore Douglas Dixon. Uscito come strenna da Rizzoli nel 1981 e scomparso subito dalla circolazione, è stato meritatamente riproposto nel 2022 dal piccolo editore romano Mosca Bianca (nomen omen). Attraverso una serie di accurate illustrazioni, che imitano i trattati di scienze naturali d’una volta, ci viene spiegato quali evoluzioni o regressioni potrebbero subire le specie animali che oggi conosciamo. È una zoologia fantastica, ma non un bestiario di mostruosità tipico delle storie fantasy: ogni dettaglio è plausibile e rigorosamente giustificato. Alcuni animali acquatici qui raffigurati assomigliano molto al gigantesco pesce siluro mutante che percorre i fiumi in Flow. Secondo il noto antropologo Desmond Morris il libro è “Incredibilmente credibile. Le creature inventate da Dixon, alcune delle quali cosi belle da sembrare vere, ci spingono a riflettere sulle forze misteriose che agiscono sotto la pelle degli animali reali.

Nella science fiction il tema della Terra privata dell’umanità è stato molto sfruttato, dando origine ad alcuni piccoli capolavori, che possono aver ispirato anche Gints Zilbalodis. Quelli che citerò ora sono stati tutti concepiti nel periodo che va dagli anni ’40 ai primi anni ’50 e non è un caso. La guerra mondiale e le prime esplosioni atomiche hanno spinto molti autori a domandarsi se l’uomo sarebbe riuscito a sopravvivere e per quanto tempo.

 

1) Il primo  caso da ricordare è quello di Gorilla Sapiens (Genus Homo, 1941) di due autori prestigiosi della golden age della fantascienza americana: Lyon Sprague de Camp e P. Schuyler Miller. Per quanto ammirata e ricordata dagli appassionati, quest’opera è oggi poco nota perché non viene più ristampata in Italia da decenni. Apparentemente, non è gradita ai curatori delle varie collane specializzate, chissà poi perché. Gli autori immaginano che un gruppo di una ventina di uomini e di donne si risveglino  tra un milione di anni, dopo una specie di letargo provocato dall’esplosione di un gas. Naturalmente il mondo è completamente cambiato e l’homo sapiens è scomparso dalla Terra, se si escludono i personaggi del romanzo. Alcune specie come i maiali e le scimmie si sono evolute, specialmente i gorilla, e noi assistiamo alla nuova civiltà, succeduta sulla Terra a quella dell’uomo. Il romanzo gioca sul senso di disagio, di vaga inquietudine e di irritazione che quasi tutti abbiamo provato osservando le scimmie nelle gabbie degli zoo, specialmente quelle che ci assomigliano di più: gorilla, scimpanzé, babbuini, orangutan (non a caso definiti primati antropomorfi). Non dimentichiamoci che negli anni ’40 le teorie sull’evoluzione di Darwin suscitavano ancora molte discussioni, che la genetica muoveva i suoi primi passi e il DNA non era ancora stato scoperto. Oggi sappiamo che i primati condividono lo stesso genoma dell’uomo per più del 98%; inoltre   ad alcuni gorilla è stato insegnato ad esprimersi usando il linguaggio dei segni dei sordomuti oppure la tastiera di un tablet: ed è stato dimostrato che possono riconoscere due o trecento parole e usarle in combinazione per discorsi veri e propri. Dunque ci stupisce di meno vedere descritti gorilla scienziati, gorilla padri di famiglia, gorilla guerrieri, gorilla uomini di governo, che vivono, ragionano e soffrono come noi in questo romanzo. Come Gulliver durante il suo ultimo viaggio nella terra degli Houyhnhnm, gli umani provenienti dal passato scoprono che questi scimmioni si comportano con più saggezza e con più amore del prossimo rispetto a noi. Penalizzato forse dal tono bonariamente umoristico, il romanzo è in realtà un conte philosophique, una bruciante satira a spese non dei gorilla ma dell’Homo Sapiens. Spero che prima o poi venga riproposto, magari in edizione integrale: si vedrebbe così con chiarezza  che è il precursore diretto di due grandi opere sullo stesso tema: La scimmia e l’essenza (Ape and essence, 1948) di Aldous Huxley e Il pianeta delle scimmie (La planete des singes, 1963) di Pierre Boulle.

2) Molto più famoso e mai dimenticato è invece Anni Senza Fine (City, 1951) del grande Clifford Donald Simak. Non è, strettamente parlando, un romanzo ma una serie di racconti collegati fra loro. È una storia che abbraccia molti millenni e che ci viene raccontata partendo dalla fine. L’uomo è scomparso dalla faccia della Terra e non è più che una figura leggendaria, un mito, nel ricordo di coloro che hanno preso il suo posto: i cani e i robot. Gli uni si sono evoluti fino a diventare senzienti, gli altri sono stati progettati per servire gli uomini, ma entrambi sono orfani dei loro antichi padroni. Sulla Terra tornata allo stato selvaggio rimane il robot Jenkins, il quale, dopo essersi preso cura degli ultimi umani, diventa una sorta di Lord Protettore della civiltà canina in via di sviluppo. Nel film Il robot selvaggio, il robot Roz che difende e aiuta gli animali della foresta sembra quasi una reminescenza del Jenkins di Simak. Così i cani si riuniscono di notte attorno a un fuoco e si raccontano l’un l’altro le antiche leggende. Dai loro racconti apprendiamo degli ultimi giorni degli uomini sul loro mondo d’origine: dapprima l’abbandono delle grandi metropoli, poi l’uscita dalla Terra per  volare nello spazio, occupando nuovi mondi in tutta la Galassia, infine la scoperta di una serie di dimensioni parallele – o Terre gemelle – con illimitate disponibilità di spazio e di risorse. Il lento declino della specie umana, l’abbandono da parte dell’uomo delle città divenute ormai un relitto di epoche preistoriche, le formiche che invadono il pianeta e costruiscono una propria società, l’avvento della civiltà canina, sono descritti con tocchi di autentica poesia.

3) Forse meno poetico, di sicuro meno conosciuto e ammirato, è comunque molto importante e tuttora godibilissimo Quoziente 1000 (Brain Wave, 1955) di Poul Anderson. L’autore ipotizza che l’intelligenza dipenda da una sostanza chimica, un gas disperso nell’aria e di cui gli uomini sono inconsapevoli. L’ipotesi è inverosimile ma questo Anderson, che ha una laurea in fisica, lo sa benissimo. È un pretesto che gli serve per eseguire un esperimento concettuale: improvvisamente questo gas aumenta vertiginosamente la sua presenza, spargendosi su tutta la Terra. Di colpo il QI, cioè il quoziente d’intelligenza, aumenta non solo in tutti gli uomini ma anche negli animali, dagli insetti ai pesci, dai serpenti ai cani, dai gatti alle scimmie e via dicendo. Oggi sappiamo che mediamente questo QI è di circa 100 negli individui normali, mentre può scendere a 30 o 25 negli idioti e superare i 140 nei geni. Ma se il QI di tutti quanti arrivasse fino a 1000? Quali sarebbero le conseguenze? Sarebbe un bene o un male? Poul Anderson ci descrive gli effetti di questa mutazione nelle diverse categorie di individui: la trasformazione dei più in superuomini dall’altissima etica; il turbamento psicologico dei più deboli e svantaggiati, che li conduce alla pazzia; l’anarchia tra i più ignoranti; la ribellione degli animali che non ubbidiscono più all’uomo e non vogliono faticare per lui né tanto meno essere mangiati. Il mondo sta per ripiombare nella barbarie e gli uomini, ormai trasformati in superuomini, decidono di andarsene verso le stelle, perché la Terra è diventata troppo limitata per loro. Lasciano il mondo agli animali e a qualche persona dal QI troppo basso, che non può seguirli. Seguiranno l’evoluzione del mondo da lontano. Uno di loro dice, prima di partire: “Saremo degli elargitori di opportunità ai milioni di creature che vivono, amano e muoiono, proprio come faceva l’uomo una volta…”.

Visto quanti spunti di riflessione? Non male per un cartone animato…

 

Franco Piccinini (Asti, 1954), si è laureato a Pavia e fino a poco tempo fa ha esercitato la professione di medico. Grande esperto e cultore di fantascienza, ha pubblicato i romanzi “Ritorno a Liberia” (tratto dal suo primo racconto), “Il tempo è come un fiume”, il saggio “Scienza medica e fantasie scientifiche” (finalista al Premio Italia 2012 e vincitore del Premio Vegetti 2018), oltre a vari articoli su Nova SF* e racconti su Futuro Europa. Di recente ha pubblicato il saggio “Mondi Sotterranei” per i 700 anni di Dante. Nel 2011 ha iniziato a collaborare con l’editore Solfanelli e con Delos Digital. E’ un grande amico della Biblioteca Bonetta e ha precedentemente scritto per il nostro sito anche i seguenti contributi:

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